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’Mbertu, u pecuraru: l’ultimo inverno
Avevo ventidue anni. Una Olympus al collo e il Salento come frontiera da attraversare. Cercavo segni, frammenti, qualcosa che mi aiutasse a capire dove mi trovavo — e forse la mia storia.
La maggior parte delle masserie erano ruderi, monumenti nel paesaggio: muri scrostati, porte sfondate, animali al riparo nel silenzio.
In una di queste trovai ’Mbertu, il pastore.
Viveva in un monolocale con un letto, un caminetto, una cucina e un aiutante indiano. Dormivano insieme accanto al fuoco, tra il fumo e l’odore del latte.
Fuori, la latrina e il gregge all’addiaccio, sotto l’occhio vigile dei cani.
Umberto non c’è più da anni. La masseria è chiusa, i muri cedono, il tempo ha cancellato voci, suoni e odori. Riguardando oggi quelle immagini del 2006, ritrovo il suo passo lento, la sua ostinazione gentile, la dignità di chi non aveva nulla ma viveva in ascolto del mondo, in simbiosi con la natura.
Questa storia non l’ho cercata. È rimasta per anni nel mio archivio, silenziosa.
Ora chiede di essere ricordata.